Senza la fede di mia madre, non sarei Pupi Avati | Tempi.it

marzo 2, 2015 Benedetta Frigerio

«Tutto quello che è alternativo a una famiglia con un padre e una madre semplicemente non è una famiglia». Intervista a tutto campo al grande regista

pupi-avati“Sapere educare. Affettività, sessualità e bellezza” è il titolo di un convengo che si terrà a Roma dal 7 all’8 marzo e che spiegherà a rappresentanti di enti scolastici, associazioni culturali, istituti e realtà impegnate nel campo dell’istruzione e della ricerca cosa significa educare. Cosa ci fa il regista cinematografico Pupi Avati fra gli ospiti? «Darò il mio contributo dicendo cos’è la famiglia», spiega a tempi.it. «Perché sono sposato da 50 anni e credo lo possa dire solo chi ne ha costruita una per tutta la vita».

Lei ha scritto un’autobiografia (La grande invenzione, Rizzoli) che è tutta giocata sulla ricerca del proprio volto attraverso quello dei suoi antenati. Perché?
Nell’arco di oltre 75 anni credo di aver maturato una conoscenza sufficiente per dire che i legami e le figure che mi hanno preceduto e introdotto alla vita sono fondamentali. I millenni passati confermano questo percorso per ognuno di noi: un uomo per crescere deve sapere da dove viene e deve imparare da qualcuno come si fa a vivere. Sopratutto, a un bambino servono una madre e un padre con i loro ruoli e doveri diversi, che, contrariamente a quanto si sente dire, non si devono scambiare, ma – semmai – completare.

Eppure, anche fatta salva la presenza di una madre e un padre, si pensa che non ci sia nulla di male nell’inversione di ruoli o che sia, addirittura, auspicabile.
Il padre è quello con cui il figlio si paragona, ma questa figura, nelle sue caratteristiche, è sempre più sminuita e debosciata. I padri non sono più padri. Le famiglie poi fanno un figlio a testa, con una media italiana di 1,3 bambini a nucleo, che è un modo di generare egoistico. Le nostre sono famiglie asfittiche, senza fratelli, cugini, zii, nonni per casa. Che solitudine! L’unica cosa che si aggiunge sono membri esterni che si palesano al fianco dei genitori separati e a cui i figli, poveretti, si dovrebbero pure affezionare. E poi ci lamentiamo se le nuove generazioni sono insicure e instabili. Manca loro il terreno del “per sempre” su cui appoggiare i piedi per immaginare un futuro da costruire.

avati-autobiografiaLei racconta che suo padre, con cui non ebbe un rapporto idilliaco, morì quando aveva 12 anni. E, sebbene sua madre non le abbia mai fatto mancare nulla, lei scrive: «Se solo avessi avuto la fortuna di crescere con lui…». Perché?
Una madre si riesce a ricattare, con lei si vive una sorta di corsia preferenziale necessaria, ma che non ha nulla a che vedere con quello che può offrire la figura paterna. Il padre entra in gioco dopo la madre, quando ti devi paragonare con il mondo esterno, perché è lui che ti insegna come affrontarlo. Anche se è morto, io so chi è mio padre con cui paragonarmi. Contrariamente a mia madre era severo, rude, meno consolatorio. Ma di questa figura ho nostalgia da quando ho 30 anni: ho fatto più di 45 film e vorrei sapere che pensa di ciò che faccio. Vorrei dirgli: «Papà, ho fatto il lavoro che avresti voluto fare tu. Ci sono riuscito! Hai visto?». Ecco come influisce un padre…

Lei ha ereditato la fede da sua madre. Perché non la ritiene un fardello imposto da una donna che per allevare i suoi figli non si risposò e che crebbe in un mondo cattolico in cui si sopportavano ancora i tradimenti dei mariti?
Le donne dell’Italia del mio passato soffrivano e non penso sia giusto. Però valutavano bene il prezzo della loro sofferenza: la mettevano sul tavolo della felicità dei figli e capivano che valeva la pena pagarla. Era un sacrificio fatto per amore. È ovvio che in un mondo dove esistono solo i diritti e non i doveri tutto ciò può apparire folle, fatto sta che le famiglie erano più forti di quelle odierne. Ora, dopo il primo incidente, mollano tutto, indebolendo i figli. Quindi la fede di mia madre è un dono. Perché è un dono avere davanti una donna come lei che ha confidato tutta la vita nella provvidenza. Per lei, nulla era impossibile a Dio e non si è mai fermata di fronte alle difficoltà. Questo ti permette davanti a una serata deprimente, di alzarti, lavarti la faccia e ricominciare di nuovo. Il mio mestiere è rischioso e so che, senza la fede ereditata da mia madre, non sarei Pupi Avati.

La sua fiction “Un matrimonio” ha avuto un grande successo. Come mai, secondo lei?
Tutto quello che è alternativo a una famiglia con un padre e una madre semplicemente non è una famiglia. Si cerca di essere innovativi senza capire che ci facciamo solo del male. La mia fiction ha avuto successo perché «ognuno di noi sa qual è la giusta cosa da fare», come sintetizza una battuta del mio ultimo film sull’adozione Con il sole negli occhi. Solo che la cosa più bella è anche la più faticosa, ma come disse Benedetto XVI il relativismo moderno ci porta ad autoassolverci e a tacitare questa voce che non ci viene imposta dai genitori né dai sacerdoti, ma che fa parte della nostra strumentazione di bordo. La mia fiction risveglia quella voce così: «Tu che punti il dito, vedi? Sarebbe così semplice essere felici». Non è facile, ma è semplice. Nella mia famiglia c’era una donna meravigliosa che essendo se stessa ci ha tenuto insieme, mostrando a tutti che ne valeva la pena.

Non ha mai nascosto le le imperfezioni e le sofferenze nella sua famiglia. Perché ne è valsa la pena?
Si scopre davvero che cosa sia un matrimonio solo alla fine. La bellezza del matrimonio è trovarsi vicino a una donna che per cinquant’anni ha vissuto con te tutto, nel bene e nel male, che ha visto tutto di te, che è il tuo hard disk. Oggi, quando guardo mia moglie, vedo me stesso. Si immagini se si smagnetizzasse l’hard disk? Sarei perduto, non saprei più chi sono, ma questa cosa l’ho capita nel tempo, tenendo fede alla promessa di pienezza che è il matrimonio. Al contrario se avessi mollato, se non fossi sempre tornato, se non avessi vissuto tutto le fasi, mia moglie sarebbe diventata la mia nemica. È ovvio. E noi vogliamo davvero lasciare giudicare il matrimonio a gente che ha mollato e che quindi non può sapere cosa sia davvero?

Cosa mi dice della vecchiaia e della vulnerabilità di cui il nostro mondo ha così paura?
La vulnerabilità e il bisogno sono i nostri più grandi valori, ti espongono, ti mettono a nudo e ti privano della diffidenza. Ci insegnano l’umiltà che avvicina gli uomini consapevoli di avere bisogno l’uno dell’altro. Producono fraternità. Invece oggi siamo educati alla supponenza, a nascondere i nostri limiti e a imporci, basta vedere la tv, dove prevalgono modelli di un’arroganza a dir poco irresponsabile. Io al centro ci metto invece gli inermi che escono dagli schemi e sono i più creativi. Conosce il discorso della Montagna? «Beati i poveri di spirito», disse Gesù, perché di essi è il regno dei cieli. Il cielo qui, dove l’altro torna finalmente ad essere il tuo prossimo. Ecco, anche questo atteggiamento l’ho imparato dalla fede.

Fra i suoi ultimi lavori televisivi c’è la serie intitolata “I militi ignoti della fede” in cui parla dei martiri del secolo scorso. Oggi assistiamo al martirio dei cristiani del Medio Oriente, di cui si parla poco, a volte persino con vergogna.
Questa vergogna si è diffusa dopo la Seconda Guerra mondiale, quando la cultura laica si emancipava e nasceva un partito cattolico. E lo dico da democristiano figlio di due assessori della Dc. Vede, la democrazia cristiana non volle applicare il discorso della montagna. Ci si abituò a mediare pur di tenere il potere. L’eredità difficile della cultura cattolica è una confusione che fece coincidere il modus operandi del partito con i princìpi evangelici. Credo sia stato un grande errore anche della Chiesa lasciare che accadesse, perché così privò la fede della sua bellezza e integrità scambiandola con una prassi politica fatta di perenni compromessi. Io sono ancora legato ai princìpi non negoziabili e, anche se è libero di definirsi tale, non ritengo un vero cattolico chi non li difende. Poi nel Sessantotto ci si è completamente liberati di questa fede sbiadita, buttando via il bambino con l’acqua sporca: è bastata una generazione, dei figli dei sessantottini, per perdere la fede. Così, davanti a un mondo che ci attacca non sappiamo cosa difendere, ci resta solo la paura. E come i grandi della terra non facciamo nulla per salvarci. A meno di ricominciare dai nuovi martiri.

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