Spot all’utero in affitto e censura dei diritti dei 46 bimbi bloccati a Kiev – La Nuova Bussola Quotidiana

Kiev 19-05-2020 – Benedetta Frigerio

L’ambasciata italiana non ha lasciato partire le sei coppie che si sono macchiate del delitto di fabbricare neonati, pagando donne povere dell’Est. Nel frattempo La Repubblica, per sdoganare l’abominio, usa il metodo compassionevole dei radicali intervistando una 55enne che si è comprata una “figlia”. Il che funziona se si condanna la pratica solo a partire dalla donna e non dai diritti dei bambini, che vengono acquistati così anche dai pedofili.

Come giustamente sottolineato dalla Sargentini sul Corriere della Sera, ai committenti italiani dei 6 di 43 bambini bloccati nella clinica ucraina dell’utero in affitto di Kiev non è stato dato il permesso di partire perché«in Italia la pratica è vietata dalla legge 40 e la registrazione all’anagrafe delle coppie committenti potrebbe rappresentare un falso in atto pubblico come stabilito nel 2018 dalla Cassazione a sezione unite in cui si ribadisce il diritto del minore alla verità sulle proprie origini».

Insomma, è chiaro che se l’Italia tollerava queste pratiche quando i genitori si trovavano a dover fare i conti con i tribunali per vedersi riconosciuti i figli (sebbene la pena per «chiunque realizza» la pratica vada da tre mesi a due anni di reclusione e da 600 mila a un milione di euro di multa gli avvocati cercano di raggirare la norma) ora la questione è sotto i riflettori della cronaca, motivo per cui l’ambasciatore italiano a Kiev, Davide La Cecilia, alle associazioni femministe che stanno chiedendo che i bambini siano restituiti alle madri che le hanno partorite o che siano dati in adozione, ha risposto così: «Abbiamo infatti ricevuto una serie di richieste di autorizzazione all’ingresso nel Paese da parte di connazionali per motivi di maternità surrogata, che non sono state tuttavia riscontrate, nonostante le ingiunzioni ricevute dai loro legali».

Ma di forte allo scandalo, per cui l’ambasciata ha le mani legate, c’è chi ancora cerca di adottare il metodo “radicale” (di cui Cappato è il maestro più recente), trovando l’eroe che ammette di violare una legge “ingiusta” e che fa leva su una falsa compassione. Basti leggere l’intervista del 15 maggio de La Repubblica ad Angela, 55 anni, la cui neonata, pagata 40 mila euro, è venuta alla luce tramite lo sperma del marito, l’ovulo di una sconosciuta e l’utero di un’altra donna. Ovviamente, il giornale non si sofferma sul fatto che la piccola è stata separata da chi porta il suo Dna e da chi l’ha partorita, per essere consegnata nelle braccia di una terza che l’ha commissionata. Nessun accenno al fatto che Stella verrà a sapere di valere appena qualche migliaia euro, mentre ogni persona deve crescere sapendo di non avere alcun prezzo. Anche perché dopo anni di martellamento sul diritto delle donne è facile dimenticarsi della bimba e incentrare l’attenzione sulla povera e vecchia mamma sterile.

E infatti l’intervista ad Angela prosegue così: «Ho provato tutto, stimolazione, inseminazione…una delusione dopo l’altra. L’unica volta in cui sono rimasta incinta ho perso il bambino». E ancora: «Mica mi vergogno. Sapete quanto è amara la sterilità?». E che dire della donna che ha prestato il suo utero per motivi di povertà? «Grazie anche a noi la sua famiglia potrà vivere meglio». Facile rispondere tanto. Difficile invece far accorgere un orecchio assuefatto del fatto che nell’intervista non si fa cenno ai diritti della bimba, come quello di avere un padre e una madre o di conoscere i suoi genitori. Ed è qui il vero punto debole della battaglia femminista a cui pur si deve riconoscere l’impegno contro la pratica abominevole con una costanza e presenza che il mondo cattolico italiano ha ormai dimenticato.

Se il problema resta “la donna”, infatti, come fare quando a prestare l’utero è magari la madre di una giovane sterile (la nonna del bambino)? Come denigrare l’abominio se “la donna” che presta l’utero fa tutto gratuitamente e per altruismo? È ovvio che se il movimento femminista si spingesse fino a parlare del diritto del bambino dovrebbe condannare anche la fecondazione omologa (dove il nascituro viene comunque messo al mondo come un prodotto, attraverso pratiche di laboratorio artificiali pagate profumatamente, saltando il processo di selezione naturale con i conseguenti problemi per la salute psichica e fisica del bambino).

Ma se non si può chiedere alle associazioni femministe di spingersi fino a qui, dalla Chiesa italiana dovremmo pretendere almeno una reazione pari a quella dei vescovi ucraini di rito bizantino e latino, intervenuti con un appello congiunto contro quella che l’arcivescovo greco cattolico Sviatoslav Shevchuk ha definito su ACI Stampa «un doppio crimine» contro la dignità della donna e contro i bambini. L’appello si incentra infatti suoi «neonati che piangono nelle incubatrici moderne, privati del tocco materno, del calore dei genitori, delle attenzioni e le cure dovute, dell’amore così necessario, e sono visti come un prodotto acquistato per il quale l’acquirente non si è presentato», ricordano che «ogni bambino è un dono di Dio che dovrebbe essere accettato con gratitudine nella vita coniugale. Ogni bambino ha il diritto di essere concepito naturalmente, e ogni bambino ha il diritto di nascere in una famiglia e di crescere nell’amore del padre e della madre». E chiedendo quindi il divieto della pratica in qualunque forma, i vescovi chiedono che i piccoli siano adottati, ma non da chi li ha fabbricati commettendo un delitto.

Nel frattempo, anziché sostenere la pratica, legale nel suo Paese, persino il commissario ucraino per i Diritti dei Bambini, Микола Кулеба, ha definito l’utero in affitto uno «sfruttamento delle donne al fine di guadagnare profitto e soddisfare le esigenze degli adulti, violando i diritti del bambino». Perché, appunto, se non si parla di quest’ultimo, chi davanti alle parole di Angela sul fatto che «a Stella racconterò tutto», si domanderà più cosa proverà quella ragazzina che, davanti ad una donna anziana, apprenderà di essere stata strappata dal seno di chi l’ha partorita e dalla donna a cui appartiene il suo Dna? Tutto pur di soddisfare il desiderio di chi l’ha cresciuta, facendole pensare così di essere al mondo per far contento chi l’ha “prodotta” per qualche migliaia di euro. Chi si straccerà più le vesti di fronte allo smercio di bambini a cui possono avere accesso incontrollato anche i pedofili, come in questi casi (vedi qui e qui)? Perché se il problema sono solo le donne sfruttate è difficile poi porre un freno all’uso di bambini per piacere degli adulti.

Sorgente: Spot all’utero in affitto e censura dei diritti dei 46 bimbi bloccati a Kiev – La Nuova Bussola Quotidiana

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