Un’indagine commissionata da un vescovo del New Jersey negli Stati Uniti ascolta le motivazioni di coloro che lasciano
di Maria Teresa Pontara Pederiva
“La fede cristiana e la Chiesa hanno un avvenire nelle società dell’Europa occidentale?”, si interrogava Kurt Koch – presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani – in un testo sul futuro del cristianesimo nel vecchio continente. Non è una novità il parlare di una crisi profonda, testimoniata dallo svuotarsi progressivo delle chiese per le celebrazioni domenicali – o quantomeno, dall’innalzarsi dell’età dei fedeli praticanti – di pari passo con il volatilizzarsi di quelle che il cardinale svizzero chiama le “grandi convinzioni cristiane”.
Nessuna differenza con quanto accade in Nord-America, specialmente negli Stati Uniti dove il micidiale connubio con lo scandalo della pedofilia – tutt’altro che concluso sia sul versante giudiziario che mediatico – ha prodotto un esodo i cui dati non sono sempre noti in termini di quantità. E dire che nelle diocesi americane il numero di quanti si dichiarano “appartenenti alla Chiesa cattolica” è ben rilevabile dal numero di persone che versano la quota stabilita all’atto della sottoscrizione. Molto meno noti sono però i motivi per cui uno abbandona.
Così mons. David O’Connell, arcivescovo di Trenton in New Jersey nell’autunno scorso ha deciso di indagare e ha affidato una ricerca a due esperti, il gesuita William j. Byron, docente di affari e finanza alla St. Joseph università di Philadelphia e Charles Zech, docente di economia e direttore del centro Studi per il management ecclesiale alla Villanova University di Pennsylvania.
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