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IL GRAN RIFIUTO

La notizia folgorante e sconvolgente dell’abdicazione, d’un papa merita chiaramente riflessione da parte di ogni fedele cattolico.

E’ pieno l’orbe universo di commenti che vanno dalla mera piaggeria al rispetto della decisione libera e incondizionata all’umiltà dell’uomo e della sua umanità all’accettazione del dolore, della sofferenza dei limiti della nostra fragile esistenza infine alla “modernizzazione” e alla novità di tal epocale gesto.

Il punto della questione però si manca, il punto non è l’umanità, la fragilità di Joseph Ratzinger, il punto è la soprannaturalità dell’ufficio petrino di cui i papi sono custodi, nessun uomo può aver la presunzione di poter guidare con le proprie sole risorse, con la propria sapienza, intelligenza, bontà, devozione, vigoria fisica etc.. la Chiesa universale. Nessun uomo crediamo, noi cattolici, per quanto magno, è capace di adempiere a tale missione.

Come può, come può quindi un uomo adempiere a questo divino sobbarco? Semplice : non può. Non può solo, non può senza la divina assistenza, assistenza che è garantita, promessa da Nostro Signore alla sua Chiesa e quindi inevitabilmente alla sua roccia, pietra e fondamento, al suo vicario, suo  timoniere.

Non dice forse Nostro Signore a Pietro ” Quando eri giovane, ti vestivi e andavi dove volevi. Da vecchio, invece, stenderai le braccia ed altri ti vestiranno e ti porteranno dove non vorresti.”, non è quindi la vita di Pietro e dei suoi successori abbandonata ad una missione che li è superiore, che non può essere né scelta né voluta ma imposta e guidata dall’alto non per mere forze umane ma più che altro divine?

E’ questo che inquieta anche un miserabile cattolico come me, l’idea di una Chiesa abbandonata alle sue insufficienti risorse dimentica della Spirito che vive nel suo senso vivificandola.

Temiamo il rispetto del mondo che oggi viene ostentato, ne temiamo gli applausi, e commozioni affettate o sincere, temiamo l’efficientismo funzionalista che ora come precedente può infettare anche il papato, il papa non come padre, buon padre non per virtù propria ma  per la condizione che assume coll’accesso al timone della barca di Pietro.

Temiamo che qualunque pastore di anime sentendo meno le forze, fisiche e/o d’animo, possa pensare a rinunce varie, in tutto in nome dell’umiltà, della fatica, della frustrazione, di ” libere decisione”, in ultimo della coscienza a questo punto formata più che dalla forza della grazia , dallo spirito dalla natura nostra, dalla carne.

La pietra è solida non per merito di chi riceve il nome di Pietro ma per promessa di Nostro Signore, non stanchiamoci di ricordarlo, ” Tu sei beato, Simone figlio di Giona, perché non la carne e il sangue ti hanno rivelato questo ma il padre mio che è nei cieli”, la rivelazione che il papa deve preservare, tramandare e confermare nei fratelli non è opera sua né lo svolgimento quindi di tale opera confirmatoria è in ultimo nelle sue mani, per quanto flebili e deboli, per quanto vigorosi e forti.

Siamo perciò stupiti dalle argomentazioni che Benedetto XVI ha apportato, argomentazioni che secondo tutto questo discorso suonano come delle scuse, scuse legittime per gli uomini del mondo non per quelli di Dio, la rinuncia si spiega in questo caso solo tramite una mancanza di volontà di conformarsi alla celeste missione, si abbandona la sequela di Cristo, si ha più sfiducia per la propria miseria che fiducia nella misericordia divina.

Temiamo poi la costituzione del precedente che si induca nel sensus ecclesiae l’idea che il papa debba corrispondere a standard, difficilmente individuabili né richiesti in alcun modo per l’esercizio del pontificato, presupponendo una diffidenza morale nei confronti del papa che non faccia scelte simili a quelle di Benedetto XVI, temiamo che i papi incomincino a comportarsi come presidenti di consigli d’amministrazione, temiamo il governo imposto dalla sociologia cangiante dei tempi e non dalla fede imperitura.

Si piccona la pietra dal seggio più alto.

Tunditur non mergitur

Filippo Deidda

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L’ABDICAZIONE DI BENEDETTO XVI: UN UNICUM NELLA STORIA

Difficile fare considerazioni in margine alle dimissioni (anzi sarebbe più corretto parlare di “abdicazione” essendo il Romano Pontefice un Monarca e non certo un Presidente democratico) di Benedetto XVI. Mi limiterò pertanto ad una breve panoramica dei sei pontefici che nella storia hanno rinunciato alla proprio incarico, al fine di evidenziare che in tutte le circostanze ci furono gravissimi motivi che – a quanto pare – non sono riscontrabili nel “caso Benedetto XVI”. A conclusione citerò un brano tratto da un ottimo articolo comparso sul sito web della rivista “Sodalitium”.

I primi due papi a dimettersi furono Papa Clemente I e Papa Ponziano, regnanti, rispettivamente, nel I e nel III secolo. Entrambi si dimisero perché, nel corso delle persecuzioni anticristiane portate avanti nell’Impero Romano, erano stati fatti prigionieri. Entrambi morirono martiri.

Il terzo fu Papa Silverio (VI secolo) vittima di un complotto ordito dall’imperatrice Teodora, fu costretto alle dimissioni e finì la propria vita prigioniero sull’isola di Palmarola.

Il quarto fu Benedetto IX, personaggio la cui storia è parzialmente avvolta dal mistero, che – addirittura – si dimise e fu rieletto Papa per tre volte, risultando essere il 145°, 147° e 150° papa della Chiesa, in un periodo di grandi turbolenze, immoralità diffusa e lotte armate che sconvolsero la città di Roma.

Il quinto papa fu Celestino V, Papa per meno di sei mesi nell’anno 1294, che Dante Alighieri pone nel suo Inferno ma che la Chiesa cattolica venera come Santo (e dunque la sua anima si trova attualmente in Paradiso e gode della visione beatifica). La sua storia è nota, da povero eremita fu eletto papa, ma dopo pochi mesi preferì tornare al suo romitaggio.

Il sesto, ed ultimo fino a due giorni fa, papa ad essersi dimesso fu papa Gregorio XII (in carica dal 1406 al 1415), dimessosi per porre fine allo scisma d’Occidente ed alla linea degli antipapi avignonesi.

Come si vede dunque, mai nessun Papa, prima dei fatti di ieri, si era dimesso semplicemente per “ingravescentem aetatem”.

A commento di ciò, riporto le ottime considerazioni del citato sito Sodalitium[1]:

[…] La rinuncia al Sommo Pontificato è prevista – come possibilità – dal canone 221 del codice di diritto canonico promulgato da Benedetto XV, per cui, di per sé, una decisione di questo genere non altera la divina costituzione della Chiesa, pur ponendo delle gravissime difficoltà di ordine pratico. È ben noto perciò che le rare rinunzie del passato avvennero in circostanze di particolare gravità nella storia della Chiesa, per cui il gesto compiuto oggi da Benedetto XVI non può essere paragonato a quelli del passato.

Si tratta invece – come lo suggeriscono le parole stesse adoperate, ingravescentem aetatem – della volontà di applicare anche all’ufficio papale quanto già il Vaticano II (col decreto “Christus Dominus”) e Paolo VI (Motu proprio “Ecclesiae Sancta”e del 6 agosto 1966; Motu proprio “Ingravescentem aetatem” del 21 novembre 1970) avevano deciso per i Parroci, i Vescovi e i Cardinali (dimissioni al compimento dei 75 anni; esclusione dal Conclave al compimento degli ottant’anni per i Cardinali).

Quelle decisioni conciliari e montiniane non avevano solo lo scopo pastorale dichiarato di evitare di avere pastori inabili al ministero per l’età avanzata (e quello non dichiarato di allontanare eventuali oppositori alle riforme), ma quello di trasformare – almeno di fatto e agli occhi del mondo – una sacra gerarchia in un amministrazione burocratica simile alle amministrazioni di governo dei moderni stati democratici, o ai ministeri pastorali sinodali delle sette protestanti. Oggi Joseph Ratzinger porta a compimento la riforma conciliare applicando anche alla sacra dignità del Sommo Pontificato le moderne categorie mondane e secolari di cui sopra, equiparando anche in ciò il Papato Romano all’episcopato subalterno. E’ molto probabile che l’odierna decisione, infatti, diventi come moralmente obbligatoria per i successori, facendo del Papato un incarico “a tempo” e provvisorio di presidente del collegio episcopale o, perché no, del concilio ecumenico delle chiese.

All’inizio del suo “pontificato”, Benedetto XVI insistette infatti sull’aspetto collegiale dell’autorità della Chiesa: il Vescovo di Roma è il presidente del collegio episcopale, un Vescovo tra i Vescovi; al termine del suo “governo”, Joseph Ratzinger ha voluto presentare – come un qualsiasi vescovo conciliare – le sue dimissioni. […].

Pierfrancesco Palmisano

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Ipotesi sul Papa. E sulla Chiesa che verrà

di VITTORIO MESSORI (17/02/2013)

Dicono che non sia stato in Sicilia, bensì a Torbole, sul lago di Garda, che a Goethe eruppero dall’anima i versi famosi: «Conosci tu la terra dove fioriscono i limoni (…) dove una mite brezza spira dal cielo luminoso?». Il mattino di lunedì 11 febbraio, pensavo un po’ ironico a Goethe – e a qualche talebano del «riscaldamento globale» -, guardando dalla finestra del mio studio, nella millenaria abbazia benedettina, la neve che scendeva sugli olivi, i cipressi, gli allori. Quello non era – per la Chiesa intera, tanto meno per me – un giorno come gli altri: la liturgia ricordava la prima apparizione della Vergine Immacolata, a Lourdes, a una piccola, miserabile analfabeta, figlia di un mugnaio fallito che aveva conosciuto anche la prigione. Il Dio del Vangelo frequenta volentieri i poveri, gli ignoranti, i disprezzati. Pregustavo la giornata tenuta sgombra da ogni impegno esterno, mi godevo la prospettiva della solitudine, fasciata per giunta dal silenzio del manto nevoso ormai alto. Contavo, infatti, di continuare – guarda caso – la stesura di un secondo libro su Lourdes, dopo quello su Bernadette pubblicato pochi mesi fa. Quale giornata più propizia di un 11 febbraio? A un tratto, ecco il telefono portatile, il solo legame con il mondo che abbia ammesso nell’abbazia. Era mia moglie, sconcertata: «Sullo schermo tv è apparsa una scritta, dice che il Papa ha annunciato le dimissioni!». Lo confesso: sulle prime pensai alla goliardata di hacker che si fossero inseriti sulle frequenze televisive. Non ero solo nel dubitare: in quegli stessi momenti, nei cinque continenti, 117 cardinali, compresi i più vicini a Benedetto XVI, erano increduli davanti alla prospettiva di dover presto partecipare a un Conclave. Chiusi la chiamata, chiedendo ovviamente di informarmi in caso di improbabile conferma. Ma non ne ebbi bisogno: il cellulare cominciò a suonare e non cessò per un paio di giorni e di notti; quando (con fatica, la neve continuava a cadere) raggiunsi la casa, al trillo del portatile si aggiunse lo squillo incessante della linea fissa e il computer cominciò a scaricare senza sosta messaggi dal mondo intero che chiedevano interviste, interventi, articoli al cronista di cui era nota la lunga vicinanza a Joseph Ratzinger e la conoscenza, solidale, del suo pensiero. Perché raccontare questo? Perché un cedimento alla testimonianza personale? Ma perché io stesso fui colpito dall’immediato, travolgente, planetario tsunami mediatico provocato da poche parole in latino lette a sorpresa, a voce bassa, quasi fossero di routine, da un vecchio, circondato da altri vecchi, in una ancor più vecchia e inaccessibile Sala vaticana. Un ciclone che raggiunse all’istante tutti; e me pure, isolato tra la neve in un angolo di provincia, sconvolgendomi ogni programma. Cliccando, nell’elenco dei «preferiti», sul sito delle maggiori testate del mondo, constatavo lo straordinario rilievo dato al Pope resigning from his charge , modulato in ogni lingua. È in casi come questi che si manifesta un paradosso singolare: alla diminuzione progressiva, in atto da decenni, del numero dei praticanti cattolici (almeno in Occidente) e della influenza sociale, morale, politica della Chiesa romana, sembra corrispondere un aumento dell’interesse per essa, per le sue vicende, per il suo Pontefice. Alla pari dei grandi media internazionali, anche le nuove testate nate sul web non rinunciano a un «vaticanista» o, almeno, a qualche esperto non tanto in questioni religiose ma, specificamente, cattoliche. Avrebbero avuto il successo che sappiamo i romanzetti di Dan Brown e dei suoi ormai infiniti imitatori se non avessero come sfondo la Chiesa, proprio quella che ha il suo centro in Vaticano? Una Chiesa, per giunta, non come residuato archeologico, come pittoresco set storico, sul tipo dell’abbazia di Umberto Eco, ma ben viva, presente, intrigante. Magari imbrogliona o, addirittura, assassina: ma, anche per questo, pericolosa perché ancora potente. L’immagine, anche se così spesso deformata, della Catholica et Apostolica affascina o inquieta l’immaginario dell’umanità. E il suo Capo in veste bianca è la sola autorità morale ascoltata ovunque e comunque: per accettare o per rifiutare, per amare o per detestare.

Débâcle cattolica?

Eppure, suona ormai beffardo l’aggettivo «cattolicissima», abbinato per secoli alla Spagna, all’Irlanda, all’Austria; e, tra un poco, forse non sarà più adatto neppure alla Polonia, che sembra volere recuperare a grandi passi il «ritardo» verso il laicismo liberal. Sono ormai multisale cinematografiche, outlet, studi di architetti, sale da gioco o, in qualche caso, sex-shop buona parte delle chiese dell’Olanda, un tempo per metà cattolica e famosa per il fervore devoto. Proprio nei Paesi Bassi vi è un gigantesco magazzino che è una sorta di segno concreto – ed è crudele, per un credente, visitarne il sito Internet – della débâcle cattolica, non solo nell’Europa nordica, ma nel continente intero: quei capannoni sono un ammasso (svenduto a prezzi stracciati, vista l’esiguità della domanda) del contenuto dei luoghi di culto abbandonati o trasformati. È un cumulo tragico di statue, di quadri edificanti, di Viae Crucis, di tabernacoli, di campane e campanelli, di vasche battesimali, di interi altari, di ostensori, di candelabri, di confessionali, di inginocchiatoi, di vetrate, di mobili da sagrestia, di abiti liturgici. A improbabili acquirenti si propongono persino le venerate reliquie di santi, racchiuse in artistiche cornici. Una discarica, insomma, per tutto ciò che fu «cattolico», dove i clienti pare siano scenografi cinematografici e teatrali o arredatori eccentrici in cerca del pezzo per qualche abbinamento blasfemo per bar, discoteche, garçonnière . Non a caso colui che ha avuto l’idea di quel deposito ha scelto un nome latino per il suo commercio: Fluminalis . Come un fiume, cioè, che porta via i detriti del Cattolicesimo. Anche se resta da chiedersi se si tratta davvero della fine del o di un Cattolicesimo; del congedo di una fede o solo dell’esaurimento di un modo di devozione legato a un tempo ormai finito.

Prima del Conclave

Ma che Chiesa è, davvero, questa che per otto anni Benedetto XVI ha presieduto e al cui peso, unito a quello dell’età, ha infine ceduto? Cos’è, oggi, quella Chiesa cattolica, apostolica, romana che sarà «guidata» (il verbo sembra forse, nella situazione attuale, un po’ pretenzioso) da colui che uscirà dal Conclave di marzo? Lo spazio ci obbliga solo a qualche pennellata, a qualche sprazzo della situazione oggettiva: ben altro respiro occorrerebbe per un quadro completo. Un quadro che – sia ben chiaro – non ha soltanto i punti di crisi cui qui accenniamo ma che presenta anche non pochi aspetti positivi, luoghi di resistenza, solidi rinnovamenti, motivi fondati di speranza. La natura duplice, al contempo umana e divina della Chiesa (a immagine del suo Signore: Dio e uomo; crocifisso e risorto), fa sì che sempre, nei secoli, sia parsa sofferente se non agonizzante; e sempre fosse, al contempo, brulicante di vita, anche se talvolta visibile solo agli occhi della fede. Un’energia vitale capace di manifestarsi e di rianimarla anche al fondo delle crisi peggiori. Mai, pure nei secoli più bui, mai questa Chiesa ha smesso di essere madre di santi, mai le sono mancati – malgrado tutto – uomini e donne che del Vangelo hanno fatto carne e sangue della loro vita. Papa Borgia è contemporaneo del più penitente e austero dei santi, Francesco da Paola, che da quel Pontefice simbolo della maggior decadenza ecclesiale fu stimato e ne ebbe approvata la durissima Regola. Tempeste che sembrarono segnare la fine, come quelle che seguirono la Riforma o la Rivoluzione francese, l’Era napoleonica, l’occupazione italiana di Roma, furono superate più che dal valore di gerarchi e fedeli dall’apparizione imprevedibile di una schiera di santi. Lo studioso serio sa che occorre grande prudenza nel giudicare quella che è la più antica, la più vasta, la più variegata istituzione della Storia: c’era già quando l’Impero romano era al suo apogeo, la sua vicenda ha attraversato venti secoli, ha visto sorgere e morire tutti i regni e svanire tutti i potenti e, malgrado tutto, è giunta sino a noi, non ha alcuna intenzione di congedarsi dal mondo. Il suo popolo e i suoi pastori – cardinali e vescovi – appartengono a tutte le stirpi e a tutte le culture, come non avviene in nessuna parte, altrove. Ultimo Stato teocratico, ultima Monarchia assoluta, è al contempo il luogo più democratico: ogni seminarista, per povero e oscuro che sia, sa che avrà nella sua bisaccia di sacerdote un possibile pastorale da Papa o almeno da cardinale o vescovo. Il più oscuro dei battezzati ha – all’interno delle sue mura spirituali – i diritti e i doveri del più potente o ricco della Terra intera. Anzi, nell’ottica che qui solo vale, è la sua la posizione privilegiata. L’ultima tra gli ultimi, quella Bernadette ignorante, malata, miserabile di cui stavo scrivendo quel mattino, avrà la gloria degli altari, ritratti venerati nel mondo intero, una statua in marmo nella navata stessa di San Pietro, pellegrinaggi ininterrotti alla sua tomba di Nevers.

Le «sfumature di grigio»

Sia chiaro, dunque: le «sfumature di grigio» che qui elenchiamo, con realismo doveroso, convivono con ampi spazi dai quali filtra la luce. Non dimentichiamo ciò che proprio Benedetto XVI ci ha ricordato, anche con il suo congedo: solo chi non comprenda che la Chiesa non è nostra ma del Cristo, può preoccuparsi per essa, per il suo futuro. Ai fedeli, Papa compreso, non è chiesto che fare, ciascuno al suo posto, il proprio dovere: il resto non è affare degli uomini. La barca, in ogni caso, giungerà al porto della fine della storia, anche fosse ridotta a una misera zattera carica solo di povera gente. Non potendo allargarci al mondo intero, concentriamoci, come abbiamo cominciato qui sopra, sull’Europa che, malgrado tutto, resta e resterà il centro, e non solo perché il Papa è il vescovo di Roma. Le comunità cattoliche di ogni altro Continente sono tutte sue figlie, sono state fondate da missionari spagnoli, portoghesi, francesi, olandesi, austriaci, bavaresi, italiani e ne portano ancora il segno indelebile. E, pure oggi, malgrado il baricentro numerico dei battezzati si sia spostato oltre l’Atlantico, è dall’Europa che giungono gli orientamenti, anche culturali, per la Chiesa intera. Solo qualche semplice può credere, ad esempio, che la più nota delle teologie «esotiche», quella detta «della liberazione», sia nata dalla sofferenza e dall’anelito degli sfruttati nell’America che parla spagnolo e portoghese. In realtà, è stata elaborata nei laboratori teologici di Francia e di Germania, con un robusto apporto olandese: dunque dagli stessi uomini e dagli stessi circoli che hanno ispirato e guidato, nei fatti, il Vaticano II. Concilio, più che dei vescovi, dei teologi. Tutti europei. La stessa superpotenza economica e militare degli Stati Uniti non ha dato finora alla cattolicità alcun santo davvero popolare né al pensiero ecclesiale uno spunto originale, se non quell’«americanismo», applicazione un po’ naïf del pragmatismo yankee al Vangelo, che Leone XIII si affrettò a condannare nel 1899. Per quanto è dunque dell’Europa, umbilicus Ecclesiae , la situazione non sembra, umanamente, rassicurante: la diminuzione, spesso l’azzeramento delle vocazioni al sacerdozio secolare potrà dissolvere a breve buona parte della millenaria rete delle diocesi e delle parrocchie, per mancanza di personale ecclesiastico. Già ora, in Francia, nell’area germanica e altrove, gli accorpamenti sono la norma, ma bastano sempre meno. Quanto alle vocazioni alla vita religiosa, molte congregazioni (soprattutto femminili, ma non solo) sono destinate statisticamente all’estinzione: sul mercato delle vendite immobiliari di Roma stanno riversandosi le sedi, spesso imponenti, delle Case Generalizie ormai deserte. I collegi che furono per i novizi sono trasformati in ricoveri per i religiosi anziani e malati: molte congregazioni stipulano patti per unire i loro invalidi, non avendo più né personale né fondi sufficienti per fare da sole. La speranza di riempire i vuoti europei con i giovani e le giovani africani ed asiatici si è rivelata spesso illusoria o, almeno, eccessiva. Troppe le differenze culturali, troppa la distanza di mentalità, troppe le motivazioni sospette nell’ingresso in seminari ed istituti. Non sono certo solide tante «vocazioni» terzomondiali determinate (come un tempo nell’Europa delle campagne miserabili) da ragioni di sopravvivenza o da ricerca di elevazione sociale. Non tutti i casi, grazie a Dio, finiscono come quello di mons. Milingo, il presule nero che tante simpatie e speranze aveva suscitato; non mancano le buone riuscite, ma molto al disotto – almeno per quantità – di quanto vescovi diocesani e Superiori Generali delle Congregazioni avevano atteso. Quanto ai laici, l’abbandono in massa della pratica anche solo domenicale, per alcuni ha portato all’indifferenza e alla lontananza, per altri si è trasformato in ostilità, tanto da spingere i sociologi a coniare un triste neologismo: «cristianofobia». Nessuno è più rancoroso di un «ex» deluso. Malgrado l’alternarsi di destre e di sinistre nei vari governi europei, un trend storico che sembra per ora inarrestabile porta a costumi morali, prima o poi riconosciuti dalle leggi statuali, che contrastano frontalmente l’etica cattolica. E, questo, anche tra gli ancora praticanti, tanto che qualcuno ha parlato di uno «scisma silenzioso»: una pratica di vita, cioè, che non tiene alcun conto (pur senza proclamazioni e, a quel che pare, senza crisi di coscienza) dei precetti ecclesiali. Chi, oggi, pur tra coloro che si definiscono cattolici e che si accostano ai sacramenti, chi penserebbe a escludere dalla sua vita coniugale gli anticoncezionali; o a distogliere il parente divorziato dal risposarsi; o ad ammonire l’amico gay praticante; o a vietare alla figlia i rapporti sessuali con il compagno; o a dissuadere le coppie dalle convivenze, esortando alle nozze. Pare che forti desistenze si verifichino pure per aborto ed eutanasia. Il praticante cattolico medio europeo sembra coincidere, nella prassi morale, col laico medio della post-modernità, senza differenze rilevanti.

L’abito del prete

I sacerdoti: sia diocesani che religiosi. Non si creda (lo hanno denunciato più volte tanto Benedetto XVI quanto Giovanni Paolo II, ma le messe in guardia cominciarono con Paolo VI) che l’insegnamento di teologi e biblisti, nei seminari superstiti e negli atenei che pur si dicono «cattolici», sia sempre rispettoso delle indicazioni che vengono da Roma. Al clero che ne esce manca spesso, più ancora che le nozioni, quella che i tedeschi – ancora al tempo della gioventù di Joseph Ratzinger – chiamavano die Katholischeweltanschauung , la prospettiva, il punto di vista cattolico. Non di rado l’ottica di certo clero e di certa stampa confessionale sembra essere quella della ideologia egemone del momento: per più di vent’anni dopo il Vaticano II fu l’impasto – con dosi diverse a seconda dei luoghi e dei teologi – tra Cristianesimo e marxismo. Ora, si è largamente infiltrato il relativismo liberal, il liberalismo etico, soprattutto la political correctness, questa ideologia diabolica perché dalle apparenze quasi cristiane ma fondata su ciò che il Cristo più detesta: l’ipocrisia, l’eufemismo ruffiano, la manipolazione delle parole per nascondere la realtà nella sua verità. A proposito di clero, di disciplina, di quella che fu un tempo la virtù dell’obbedienza: prendiamo un aspetto che sembra minore – quello dell’abito ecclesiastico – ma che ha in realtà un significato esemplare. Il nuovo Codice di diritto canonico, riscritto secondo le indicazioni del Vaticano II, recita, al canone 284: «I chierici secolari portino un abito ecclesiastico decoroso, secondo le norme emanate dalla Conferenza Episcopale del luogo». E, per i membri di ordini e congregazioni, prescrive al 669: «I religiosi portino l’abito dell’istituto, fatto a norma del diritto proprio, quale segno della loro consacrazione e testimonianza di povertà». Il Concilio stesso aveva ammonito di non abbandonare questo «segno» di consacrazione sul quale, tra l’altro, Giovanni XXIII era rigorosissimo, imponendo al suo clero, nel Sinodo Romano che precedette il Vaticano II, la sola talare nera dai molti bottoni e vietando persino il clergyman. Ebbene: prima Paolo VI, poi Giovanni Paolo II, infine Benedetto XVI hanno moltiplicato le esortazioni, gli inviti, gli ordini, i rimbrotti, ma il risultato è sempre l’armata Brancaleone dei sacerdoti (vescovi, non di rado, compresi) abbigliati ciascuno secondo l’estro proprio. Dal completo da manager, al giubbotto da metalmeccanico, sino agli stracci ben studiati da clochard-filosofo: comunque, sempre indistinguibili dai laici. La raccomandazione di un Concilio Ecumenico e le ripetute disposizioni disciplinari di quattro Papi non sono riuscite ad ottenere alcun ascolto, spesso neppure dalla gerarchia episcopale. La questione sembra secondaria, ma non lo è: dietro il rifiuto dell’abito religioso vi è una teologia, vi è la negazione protestante di un sacerdozio «sacrale», che distingua il prete dal credente comune; vi è il rigetto della prospettiva cattolica che, col sacramento dell’ordine, rende un battezzato «diverso», «a parte». Il sacerdote non come testimone del Sacro, non come «atleta di Dio» (l’immagine è di san Paolo) in lotta per la salvezza dell’anima propria e dei fratelli contro le Potenze del male, bensì uomo come gli altri, distinto semmai solo dal maggiore impegno sociopolitico.

Una ong di filantropi?

Vi è qui la maggiore, forse, delle attuali deformazioni, insidiosa in quanto apparentemente meritoria: la Chiesa, cioè, come la maggiore delle ong, una organizzazione di volontari, di filantropi dediti a soccorrere coloro che sono bisognosi di assistenza materiale e, al contempo, a denunciare con toni profetici ingiustizie, disparità, violazione dei diritti umani. Preti e suore come militanti sociali e come sindacalisti, uniti nella lotta, senza differenze di religione, a ogni uomo di buona volontà. Nobile ideale, va riconosciuto. Ma che a un cristiano non può bastare. In questo pur generoso darsi da fare solo umano vi è un rovesciamento radicale della prospettiva di fede: il «Cristianesimo secondario» – quello dell’impegno sociale e politico – non può, non deve essere anteposto a quello «primario». Che è l’annuncio del Vangelo della salvezza eterna, è la «carità della verità» prima ancora di quella (pur benemerita, ma derivata) del pane, l’amministrazione dei sacramenti che sorreggano nella fede e conducano verso la meta al di là della morte, la preghiera individuale ma pure quella, pubblica, incessante, ogni giorno rinnovata, della liturgia. La fede senza esitazione nella verità del Vangelo e l’annuncio di esso ai fratelli (il kérygma) è il prius , la carità materiale non è che la conseguenza doverosa, istintiva ma subordinata, all’annuncio che «Gesù è il Cristo». Quel rinnovato Codice canonico che dicevamo, questa raccolta delle leggi che reggono l’istituzione ecclesiale, riporta alla fine il fondamento di sempre, la ragion stessa di essere della Comunità cristiana: Salus animarum suprema lex Ecclesiae esto , suprema legge della Chiesa (e di ogni uomo di Chiesa) sia la salvezza delle anime. La Chiesa esiste per questo: per annunciare la Vita oltre la vita e per accompagnare gli uomini verso questo traguardo finale. Non è spiritualismo disincarnato, al contrario: è consapevolezza della parola del Cristo, per il quale «non di solo pane vive l’uomo» e per il quale non vi è vita umana senza una prospettiva di eternità. Quel Gesù che predicava la Parola che salva e poi, ma soltanto poi, dopo aver nutrito le anime, le menti, i cuori, pensava ai pani e ai pesci per sfamare anche i corpi. Quel Gesù che guardò con affetto grato Marta che si affaccendava per la casa «tutta presa da molti servizi», come scrive Luca. Ma che le ricordò che era la sorella, Maria, accoccolata in silenzio ai suoi piedi, che «aveva scelto la parte migliore, quella che non le sarà tolta». La parte, cioè, di chi dà il primo posto all’ascolto della Parola di Dio, alla meditazione, alla preghiera, che è il lavoro più prezioso anche socialmente, benché i suoi effetti concreti spesso sfuggano alla nostra miopia. Non a caso la Chiesa ha sempre approvato, incoraggiato, benedetto le famiglie religiose di «vita attiva», dedite soprattutto alla carità corporale. Ma ha sempre considerato più alte – dunque, più rare – le vocazioni alla «vita contemplativa», nel silenzio e nel nascondimento del chiostro. Concetti che furono elementari, per un cattolico. Eppure, sembrano sfuggire a tanti, tra i fedeli stessi. Non a caso Benedetto XVI ci ha ridato un esempio: nel suo desiderio di continuare a servire la Chiesa, ha scelto il ministero della preghiera nella solitudine e nel silenzio, cioè l’impegno più concreto, che però solo la fede può comprendere.

Che fare?

Ma che dovrebbe fare il Papa che uscirà dal prossimo Conclave, alla luce di quei nodi di crisi che si è cercato di indicare, seppur solo con pochi, pochissimi esempi? Noi non siamo Hans Küng che da decenni si è nominato anti-Papa e che, in un’intervista di questi giorni, sfidava il grottesco: plaudiva infatti allo svecchiamento della Chiesa, voleva che gli anziani si togliessero di torno, diceva che il suo già collega Ratzinger aveva aspettato troppo ad andarsene. Non ricordava al lettore, però, che, con i suoi 85 anni, è coetaneo di Benedetto XVI (soltanto pochi mesi in meno), eppur nulla intende mollare degli incarichi raggiunti. In pensione vadano i Papi, che diamine, non gli anti-Papi! Ma noi non siamo Küng, soprattutto perché ci pare da delirio egocentrico, da rinnegamento di ogni prospettiva cristiana la risposta alla domanda «Che cosa si aspetta dal prossimo Conclave?». Risposta che così, purtroppo, suona: «Il Conclave potrà dare un impulso solo se i cardinali accetteranno l’analisi esposta nel mio libro Salviamo la Chiesa ». Poiché, come si sa, in una prospettiva di fede è lo Spirito Santo a ispirare gli elettori nella Sistina, il Paraclito dovrà sbrigarsi: occorre procurarsi quel libro e studiarselo bene per indirizzare i cardinali non come Dio, ma come il professor Küng comanda. Lo Spirito, in Conclave, non è che un tramite del Messaggio redentore, quello che sta nelle tavole bronzee, incise in caratteri gotici, di Salviamo la Chiesa vergate da colui cui fu vietato di dirsi «teologo cattolico». Prendendoci, come doveroso, assai meno sul serio, noi crediamo che la Chiesa, Corpo stesso di Cristo, Sua proprietà esclusiva, sia già salvata, senza bisogno delle nostre analisi e dei nostri libri che, semmai, rischiano di irrigidire in un morto schema ideologico l’abbondanza di vita del Vangelo. «Il mio programma è di non averne», disse giustamente Benedetto XVI nel discorso di inizio del pontificato. Se è lecito, tuttavia, un auspicio, è che il Papa che uscirà dal prossimo Conclave si ponga come prioritario un impegno. Quello che mi riassunse, in una intervista che fece rumore, Hans Urs von Balthasar, tra i maggiori teologi del secolo scorso, cardinale mancato solo per la morte improvvisa. Mi disse: « Tout d’abord, il faut remettre le christianisme debout », innanzitutto bisogna rimettere il Cristianesimo in piedi. Occorre, cioè, rimetterlo dritto sulla base in roccia della fede: una fede salda, come fonte originaria e primaria, da cui tutto derivi. Continuando, in questo modo, il lavoro di colui che ora lascia il pontificato. In effetti, l’eredità più significativa che Benedetto XVI ci lascia è quell’ Anno della fede , per il quale ci ha dato anche il testo di riferimento: quei tre libretti, apparentemente divulgativi, in realtà calibrati parola per parola, frutto di una vita intera di riflessione, che ci mostrano come Gesù sia il protagonista di una storia vera, non di un oscuro mito giudaico-ellenistico. Da docente prima e poi da vescovo, poi da Prefetto della Dottrina della Fede, infine da Papa, Joseph Ratzinger ha voluto sempre e solo darci testimonianza che prendere sul serio i Vangeli, scommettere sulla loro verità la nostra vita e la nostra morte è ancora possibile, non è ingenuità o carenza di informazione. Credere che Gesù è davvero il Cristo può farlo anche lo specialista più informato, più smaliziato (come Ratzinger è) quanto alle esegesi e alle teologie più recenti. Insomma, per dirla alla svelta: confermare il popolo di Dio che le chrétien n’est pas un crétin . Ha scritto nel testo di indizione per l’Anno della Fede: «Capita ormai che i cristiani si diano preoccupazione quasi esclusiva per le conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, pensando ad essa come a un presupposto ovvio. Ma simile presupposto di una fede salda è, purtroppo, sempre più spesso illusorio». Ecco – pur convinti che la scelta della Sistina sarà comunque la migliore, se i venerandi elettori si riterranno solo gli strumenti di Qualcuno che li sovrasta – ecco, il nostro auspicio è per un Papa consapevole che la Chiesa non ha che un problema: confermarsi e confermarci nella fede, tornare a recitare il Credo con convinzione, rafforzare (anche con la riscoperta di un’apologetica adeguata) le ragioni per credere. Il resto seguirà da sé e tanti nodi si scioglieranno. La sola vera, preoccupante crisi ecclesiale è consistita, in questi decenni, nell’affievolirsi della certezza nella Speranza che il Vangelo ci annuncia. Papa Ratzinger ne era ben consapevole, alla pari di Papa Wojtyla. L’augurio è che il loro Successore, chiunque sia, ne sia altrettanto convinto.

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RIFLESSIONI A BRACCIO SULLA SEDE VACANTE

Plaudono laicisti e progressisti a questa scelta dismissoria da prepensionamento. Ma cosa può valere il loro giudizio? Agitano in molti, lo spettro delle rivelazioni private in una sorta di neoprotestantesimo apparizionista, per cui ognuno si fa la sua “madonna” che gli rivela chissà quali “segreti”. Al netto di qualsiasi prurito complottista, pur non essendo affatto avverso al cosiddetto “complottismo”, ad oggi la situazione sembra chiara. Temo che Ratzinger sia seriamente malato e che voglia evitare di ritrovarsi in condizioni pietose e inadeguate nel prossimo futuro.Al di là dei retroscena che forse usciranno fuori mi sembra un atteggiamento di buon senso dettato dalla consapevolezza di andare incontro nei prossimi anni a minor vigore fisico e psicologico. Se il vescovo di Cracovia immediatamente polemizza con Ratzinger quasi dandogli del vigliacco che “scende dalla croce” stigmatizzando la differenza col predecessore, si vede che il tasto è dolente e la contraddizione forte. Wojtyla sarebbe eroico perchè “resiste fino alla fine” (?!?!) mentre Ratzinger una sorta di “disertore che rifiuta la croce”. Ferme restando le mie idee sui Papi del postconcilio non posso non registrare, allo stato degli “atti”, come la mentalità del cattolico medio sia ormai pervasa da sentimentalismo e carismatismo, cose ancora peggiori della smania di dover trovare per forza il complotto. Wojtyla aveva abituato la gente ad essere una sorta di icona mentre il pontefice ha dei doveri gravosi che direttamente deve adempiere. Negli ultimi anni del suo pontificato decidevano tutto altri? Magari scrivevano anche loro i suoi documenti e forse li firmavano pure in sua vece? Tutto cio non suscitava scandalo perchè rimaneva visibile lui come icona. Ecco perchè oggi molti sono disorientati dalla scelta di Ratzinger estremamente più dignitosa a mio avviso. Quello che è inaccettabile è invece pensare ed ammettere con disinvoltura una cosa gravissima e che cioè Wojtyla di fatto veniva sostituito quasi in toto da qualche altro nel compimento dell’Ufficio. Che importa? Ciò che conta era portarlo con la mano tremolante a destra e a manca come una icona. Insomma il firmare documenti, prendere decisioni, scrivere, insegnare, dirimere, gestire, punire….GOVERNARE? Qui si dimentica che il Papa è anche un Re, il Re della Chiesa universale con competenze spirituali e giurisdizionali ma anche potenzialmente temporali. Se si può diventare inidonei a svolgere l’ufficio di assessore comunale, figuriamoci quello di Pontefice! Insomma NON E’ POSSIBILE PILATESCAMENTE METTERE IN RELAZIONE LE SCELTE DI WOJTYLA E RATZINGER COME SE FOSSERO EQUIVALENTI PERCHE’ SONO PRATICAMENTE AGLI ANTIPODI, nel bene o nel male, che si preferisca l’una o l’altra e al di là della loro comunione sostanziale…. ma conoscendo “i miei polli”, anche tutto ciò sarà valutato con la chiave ermeneutica della “continuità” …. questa volta non dottrinale e teologica ma carismatica o “apocalittica”. L’Apocalisse è già avvenuta e avviene continuamente pur essendo sempre di là da venire. Sempre col Capitano Nostro nella luce e nelle tenebre, nell’angoscia e nel tepore, senza Papa o col Papa, nella leggerezza e nella catastrofe. Si Spiritus nobiscum…quis contra nos? Queste considerazioni fatte ‘a caldo’ sono dettate da un istinto di conservazione e da un’esigenza di semplificazione. Rimango dunque perplesso perché già intuisco che i fatti mi daranno probabilmente torto. Se vi è una grave malattìa degenerativa che il riserbo e lo stile hanno voluto non rendere palese è un conto, ma se davvero il professor Ratzinger sta bene ed ha voluto solo optare per una sorta di “prepensionamento” allora signori miei, non sò più cosa dovrà fare Nostro Signore per rendere a tutti evidente come l’Autorità Papale si trovi oggettivamente, in una crisi che obbliga i cattolici non solo a prenderne atto, ma a doversene fare una ragione. Senza sindromi dello struzzo e minimalismi che hanno solo il tanfo della menzogna.

Pietro Ferrari

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Altro che omofobia: la vera campagna d’odio è contro la Famiglia

di Marco Gabrielli (16/02/2013)

Trieste è sempre stata una città all’avanguardia, sede di sperimentazioni sociali e politiche. E’ la città che ha visto la prima campagna anti-omofobia trovare spazio su tutti gli autobus di linea. Intitolata “Si va diritti all’amore”, vedeva l’esposizione di sei immagini di vita “famigliare” di coppie formate da persone dello stesso sesso. Ad essere ritratti su base volontaria alcuni soci del “Circolo Arcobaleno”. Sul retro del cartoncino appeso ai passamano le motivazioni della campagna. Il tutto con il patrocinio di Comune e Provincia di Trieste attualmente guidate da giunte di centrosinistra.

Non sono mancate prese di posizioni fortemente critiche rispetto alla campagna e al patrocinio fra cui quella del settimanale diocesano che ritiene che la campagna sia in favore dei “diritti” degli omosessuali più che contro l’omofobia. Ma siamo proprio sicuri che ad essere minacciati da una campagna di odio e discriminazione siano gli omosessuali?

Mi permetto di raccontare alcuni atteggiamenti incontrati ed alcuni episodi che sono capitati a me. Così facendo mi chiedo e chiedo al lettore se non esistano oggi e non vadano piuttosto contrastate certe “fobie” rivolte contro la famiglia “tradizionale” in generale e la “famiglia numerosa” in particolare. Lascio da subito la libertà di immaginare tutta quella serie di battute che vengono rivolte quotidianamente contro chi dichiara la propria fedeltà e il proprio amore verso la propria “unica” moglie e i propri figli; contro chi dichiara di vivere la propria sessualità “come Dio comanda”, senza ridurla a puro istinto da slegare dalla fecondità ricorrendo alla chimica, alla gomma o all’aborto. Un continuo “martellamento” che va dal collega che minaccia “scherzosamente” di sterilizzarti mettendo una pallina di cobalto radioattivo sotto la sedia, alla collega che ti ringrazia perché i tuoi figli le pagheranno la pensione mentre lei sa che il numero perfetto per l’amore non deve mai superare il due,  a chi ti da del coniglio non per la codardia, ma per la prolificità. Tutte cose a cui si deve fare il callo, e che è facile sopportare, ma che misurate con i criteri con cui si misura l’omofobia potrebbero far scattare qualche pesante ritorsione legale.

Non si può negare che ci sia tutta una cultura contro la famiglia e, paradossalmente, anche le campagne in favore della “famiglia omosessuale” non sono altro che l’ennesimo tentativo di delegittimare la famiglia “tradizionale” in un momento in cui questa sta attraversando un momento di crisi. Ecco alcuni episodi fra i più “fastidiosi” che mi sono capitati negli anni che emergono violentemente sul “rumore di fondo”: il primo che racconto è capitato a mia moglie poco prima della nascita della nostra terza figlia, quando il ginecologo che ci seguiva ci ha proposto il parto cesareo per procedere così alla sterilizzazione chirurgica: “così non avrete altre preoccupazioni…”. Una proposta estremamente grave in quanto proveniva da un medico che giudicavamo autorevole. Non abbiamo avuto entrambi alcuna esitazione a rifiutare una simile proposta, ma quante coppie reagirebbero nello stesso modo davanti al suggerimento di uno specialista? In quanti scambierebbero questa possibilità segnalata per un “ordine” dato da un medico: se me lo propone lo specialista vuol dire che sa che così è meglio… Spiacevole anche l’episodio in cui un impiegato comunale, che non conoscevo, dal quale mi informavo circa eventuali contributi dopo la nascita del mio quarto figlio, ha avuto l’ardire di chiedermi: “Adesso basta, no?”. Ho dovuto scusarmi per la mia violenta reazione a questa domanda, ma mi auguro che quel impiegato non abbia ripetuto più quella frase ad altri. Io e mia moglie ora di figli ne abbiamo cinque… Triste sapere poi che la ragazzina, figlia di amici, che comunicava gioiosamente la nascita dell’ennesimo fratellino, il sesto se ricordo bene, si sia sentita dire da una compagna di classe: “Incredibile che negli anni 2000 ci sia ancora chi non sa cosa si deve fare per non avere figli!”. Si, come se avere figli fosse sempre uno sbaglio da evitare, come se non sia ammissibile che una coppia possa decidere di vivere il proprio amore aperto alla vita e grato per i figli che Dio, o la natura per chi non crede, ha voluto donargli. Come se non fosse possibile che uno decida consapevolmente di andare incontro a degli innegabili sacrifici pur di poter crescere i propri numerosi figli in mezzo ai tanti problemi che si incontrano. Non parlo solo di problemi economici o delle mancate agevolazioni o delle nuove tasse che sembrano voler colpire espressamente le famiglie numerose, ma di tutte quelle problematiche che chi ha a cuore la famiglia ha ben presenti.

Prima di fare delle campagne contro l’omofobia, credo che si dovrebbero fare delle campagne contro l’odio e l’ostilità palese nei confronti della famiglia: è questa la risorsa per il futuro del nostro paese. Queste dovrebbero essere le campagne patrocinate dagli enti pubblici. E’ questo l’amore, diretto e fecondo perché aperto alla vita, che va incentivato. Non credete?

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Lasciato solo

di Francesco Agnoli, da “Il Foglio” (14/02/2013)

Mi tremano le mani, ora che mi accingo a scrivere alcune misere considerazioni su Benedetto XVI. Ci sono momenti della storia che non appartengono alla storia, ma all’eternità. Questo sembra, a me, a molti, uno di quei momenti. In cui si percepisce che sta accadendo qualcosa che è ben di più di quello che sembra. Il mondo si interroga. Ma non ha chiavi di lettura, perché senza la fede non si può comprendere ciò che nasce dalla fede. In ogni modo a molti è evidente un primo fatto: quando un papa se ne va, il rumore del mondo si rivela per quello che è: un ciarlare senza vita e senza respiro. Basta leggere il più malriuscito dei discorsi di Benedetto XVI, per sentire in esso più verità, più sapore, che in tutto il ciarlare mondano dei protagonisti della politica, della televisione, dei giornali. Le prediche di Scalfari, gli editoriali “impegnati” di De Bortoli, le trasmissioni di Fazio, i comizi para-religiosi di Vendola e di tutti quanti… dimenticheremo tutto domani. Tutta roba che scivola via, che scade, in tempo reale. Solo le parole che nascono dalla fede sincera e profonda nell’esistenza della Verità, della Carità, della Giustizia divina, così diversa da quella umana, rimarranno nei cuori e nella storia. Ancor più se dette con la “nobile serenità e quieta grandezza”, per usare le parole del Winckelmann riferite al Laocoonte (avvolto dai serpenti), con cui le ha pronunciate per anni Benedetto XVI.

Un secondo fatto: Benedetto XVI se ne va dopo aver subito attacchi di ogni sorta. Dentro e fuori la Chiesa. Chi, ai nostri giorni, è stato più calunniato di lui? Appena eletto si sono affrettati a presentarlo nientemeno che come un nazista; poi l’Europa intera lo ha processato quando ha ricordato che in Africa non si vince l’aids con il preservativo, ma educando gli uomini e le donne al rispetto reciproco, alla sessualità ordinata, alla fedeltà, al dominio della devastante violenza della cieca concupiscenza; e poi ancora, un processo dopo l’altro, e sempre il papa imputato. Imputato di fronte a giudici iniqui.

Ma non sono stati questi, a mio parere, gli attacchi che hanno logorato di più Benedetto XVI, nel corpo e nello spirito. Perché egli è stato, anzitutto, un generale non tanto senza esercito, quanto senza (quasi) ufficiali e luogotenenti. Il suo coraggio, nel rilanciare la razionalità della Fede, l’alleanza tra il pensiero greco, quello romano e la teologia cristiana, ha trovato sordi, anzitutto, molti suoi  vescovi e preti, educati da trent’anni ad un culto protestante-martiniano della Bibbia, sradicato dalla tradizione filosofica europea. La sua battaglia per il ritorno al senso del sacro, ha trovato anch’essa l’ostilità e l’incomprensione di troppi che hanno trasformato il cristianesimo in una filosofia morale, in una filantropia di stampo illuminista.

Di qui l’ostracismo al Motu proprio summorum pontificum che rimetteva in vigore secoli di liturgia latina, ridando cittadinanza al canto gregoriano, agli altari tridentini, alla pietas di generazioni e generazioni di santi. Di qui l’incapacità di molti di comprendere il tentativo di Benedetto XVI di rilanciare la devozione eucaristica, vero cuore della fede cristiana, promuovendo la comunione in ginocchio e in bocca, la pratica dell’adorazione eucaristica, la solennità della cerimonie sacre… Di qui l’inerzia di fronte alla richiesta continua del papa di ritornare a spiegare il catechismo, a spezzare il pane della sapienza, a dare le ragioni e i dogmi della Fede, nella loro essenzialità e chiarezza.

E la battaglia per la difesa dei principi non negoziabili? Pochi dei suoi ufficiali lo hanno spalleggiato: chi per incapacità di comprenderne il senso, chi per mancanza di coraggio, chi per una fede ormai così tiepida da ritenere “controproducente” ogni scontro con lo spirito del mondo.

Senza ufficiali, con un esercito di fedeli spesso disorientato, Benedetto XVI ha forse sentito un peso eccessivo sulle spalle. Gioiscono in molti, con o senza sottana.  E’ triste, invece, un popolo che lo ha amato (anche chi avrebbe voluto meno encicliche e libri e più governo; anche chi non ha condiviso certe idee,  certe scelte; anche chi non ha apprezzato alcune nomine o le dimissioni stesse…). Voglio concludere riportando un brano molto bello e attuale da uno dei suoi ultimi discorsi (19 gennaio, ai membri del Pontificio Consiglio Cor Unum): “La visione cristiana dell’uomo è un grande sì alla dignità della persona chiamata all’intima comunione con Dio, una comunione filiale, umile e fiduciosa. L’essere umano non è né individuo a sé stante né elemento anonimo nella collettività, bensì persona singolare e irripetibile, intrinsecamente ordinata alla relazione e alla socialità. Perciò la Chiesa ribadisce il suo grande sì alla dignità e bellezza del matrimonio come espressione di fedele e feconda alleanza tra uomo e donna, e il no a filosofie come quella del gender si motiva per il fatto che la reciprocità tra maschile e femminile è espressione della bellezza della natura voluta dal Creatore”. Dei sì e dei no: così parlano i pastori, di fronte ai lupi travestiti da agnelli. 

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Se Rai Uno diventa nemica della famiglia

Se Rai Uno diventa nemica della famiglia:

La propaganda dal festival di Sanremo a favore dei matrimoni gay segna un ulteriore passaggio nell’offensiva contro la famiglia scatenata dalla rete tv tradizionalmente per la famiglia. L’inquietante silenzio degli uomini di Chiesa.

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